Sulla qualificazione giuridica del pagamento in bitcoin o in altra criptovaluta: una ipotesi ricostruttiva alternativa più aderente alla natura del fenomeno.

Stefano Capaccioli

Avv. Giorgio Maria Mazzoli

Sfuggite gli uomini che vi dicono che il denaro è un male. Questa frase è il campanello d’allarme, vi avvisa che c’è un pescecane in arrivo. Finché gli uomini vivranno insieme sulla terra e avranno bisogno di qualcosa per commerciare gli uni con gli altri… l’unico surrogato, se scartano il denaro, è il calcio di un fucile”. Così Ayn Rand dava voce al formidabile personaggio di Francisco D’Anconia nel romanzo L’uomo che apparteneva alla terra[i].
Nel 1957, anno di prima pubblicazione del romanzo, si era ovviamente ben lontani dall’immaginare che l’evoluzione scientifica e tecnologica potesse un giorno consentire di dar corso allo scambio beni o servizi, non solo prescindendo da qualsivoglia contatto fisico tra le parti, ma, ciò che ancor più rileva, attraverso l’impiego di un mezzo di scambio alternativo alla moneta (e senza ricorrere, ovviamente, al calcio di un fucile).
Da quando il fenomeno delle criptovalute – di cui il bitcoin rappresenta, come è ben noto, il primo esempio in ordine storico – si è imposto all’attenzione del mercato, gli operatori del diritto hanno cominciato gradualmente a misurarsi nel tentativo di offrirne una ricostruzione giuridica coerente finendo, nondimeno, con lo scontrarsi ogni volta con evidenti aporie.
Le diverse ipotesi avanzate sino ad ora non sembrano cogliere, in tal senso, l’essenza del fenomeno: esse si sforzano di dare una qualificazione dei bitcoin o delle criptovalute in sé e, nel tentativo di offrire soluzioni coerenti a livello sistemico, finiscono però sempre col tralasciare aspetti che, se si ha riguardo alla sostanza delle cose, devono invece ritenersi decisivi.
Il dato da cui muovere, ad avviso di chi scrive, non può che essere costituito da una corretta analisi delle logiche su cui si fonda la tecnologia Bitcoin.
Pare evidente, in tal senso, che essa si sviluppi attorno ad alcune considerazioni fondamentali:
a) l’impiego di qualsivoglia strumento di pagamento comporta in ogni caso un’attività volontaria che può poi articolarsi in un singolo atto, come avviene con la materiale consegna di denaro contante, od in una sequenza di atti comunque tra loro coordinati, a volte posti in essere tutti dal medesimo soggetto (come può accadere nel caso dei titoli di credito in cui alla consegna possono aggiungersi, ex 1994 c.c., gli eventuali ulteriori adempimenti richiesti secondo le norme che ne disciplinano la circolazione), ed altre anche da terzi, magari vincolati al soggetto in questione da specifici obblighi contrattuali (come avviene nel caso dell’esecuzione di un bonifico bancario);
b) l’attività in questione, a prescindere da come poi si articoli in concreto, può comunque essere ridotta, in ultima analisi, ad un singolo atto volontario posto in essere dal solvens idoneo a rappresentare quantomeno la manifestazione di un consenso, la quale può infatti considerarsi, su un piano astratto, quale elemento minimo imprescindibile, per ciò che può essere richiesto al solvens stesso, affinché un pagamento possa avere luogo o, in altri termini, come minimo comune denominatore a qualunque attività volta a perfezionare un pagamento;
c) se l’impiego di una rete informatica, per natura, consente esclusivamente lo scambio di informazioni a distanza tra due o più soggetti, in un rapporto gestito tramite una siffatta rete lo scambio di informazioni, attraverso l’invio di messaggi, può ovviamente anche consentire la manifestazione di un consenso (ed è peraltro noto che il nostro ordinamento giuridico ha già da tempo riconosciuto piena efficacia alle dichiarazioni effettuate con l’invio di messaggi tramite sistemi basati sulla crittografia asimmetrica e sulla firma digitale[ii]);
d) tradizionalmente la mera manifestazione di consenso non è, tuttavia, mai sufficiente a perfezionare il pagamento stesso posto che quest’ultimo implica un dare (cioè la consegna) che è ovviamente cosa diversa dall’esprimere una volontà, pur implicandola;
e) il pagamento, in tal senso, presuppone, anzitutto, che il solvens abbia effettivamente la disponibilità materiale esclusiva di quanto debba essere dato in consegna (diversamente la traditio non potrebbe nemmeno mai realizzarsi) e comporta poi che tale disponibilità, per effetto di esso, sia, da un lato, acquisita dall’accipiens e correlativamente, dall’altro lato, perduta dal solvens (cosa che può ovviamente avvenire in modo contestuale, con la consegna diretta, dal secondo al primo, di denaro contante o altro effetto equivalente, od anche in tempi diversi, come generalmente accade nel resto dei casi[iii]).
f) in tutti i casi in cui il solvens può dar corso al pagamento mediante una mera manifestazione di consenso (come avviene, esemplificativamente, con la digitazione on-line di un codice dispositivo per l’invio dell’ordine di trasferimento di fondi attraverso il circuito bancario o con la digitazione di un PIN nel sistema bancomat) ciò che manca affinché la consegna si realizzi non può, evidentemente, che essere rimesso ad altri soggetti, ovverosia agli intermediari chiamati, in qualche modo, a supplire alla carente attività di chi, per eseguire il pagamento stesso, si sia appunto limitato a compiere un singolo atto idoneo ad esprimere solo una volontà.
Ebbene, l’essenza della tecnologia Bitcoin sta proprio nel fatto di consentire che la consegna sia, invece, vincolata alla manifestazione di consenso espressa con il mero invio del messaggio tramite una rete informatica, in modo che quest’ultimo, di per sé, basti a dar automaticamente corso alla prima.
È, infatti, proprio ciò che consente di far sì che l’intera transazione possa essere gestita senza l’intervento di alcun intermediario e, dunque, direttamente tra solvens ed accipiens, con il fondamentale effetto, in tal modo, di eliminare tanto i rischi, quanto i costi naturalmente connessi alla stessa presenza dell’intermediazione, rendendo, conseguentemente, più convenienti pagamenti anche per importi minimali ed evitando, da ultimo, anche la necessità di far gestire informazioni personali sensibili all’intermediario[iv].
Come è noto, tali obiettivi sono conseguiti grazie ad un uso accorto ed innovativo dei principi della crittografia asimmetrica.
È, difatti, solo in virtù di tali principi che la tecnologia Bitcoin ha potuto assicurare il rispetto di alcuni requisiti indispensabili per consentire che la mera manifestazione di un consenso, espresso mediante l’invio di un messaggio attraverso una rete informatica, potesse bastare a dar corso, in modo sostanzialmente automatico, alla consegna e, perciò, potesse assolvere alla funzione di mezzo di scambio: se la manifestazioni del consenso deve essere sufficiente per dar corso al pagamento, senza che alla consegna debba provvedere un intermediario, ciò che potrà essere consegnato, per definizione, sarà, appunto, nient’altro che un messaggio (si è detto che l’impiego di una rete informatica, per natura, consente esclusivamente lo scambio di informazioni a distanza tra due o più soggetti); ma se gli utenti fossero liberi di determinare il contenuto di questo messaggio il sistema non potrebbe in alcun modo garantire che la manifestazione di consenso, espressa con l’invio del messaggio stesso, possa produrre, nella sostanza, effetti analoghi a quelli che vengono naturalmente a determinarsi con l’adempimento di un’obbligazione di dare.
Sono le regole della crittografia, invece, ad assicurare che il solvens non possa trasferire altra criptovaluta che quella di cui il medesimo abbia la disponibilità esclusiva (cioè non possa inviare un messaggio volto a realizzare un pagamento se non in relazione alla criptovaluta effettivamente associata alla chiave pubblica[v] generata dalla chiave privata di cui il soggetto abbia un uso esclusivo) e, correlativamente, che, con il pagamento, tale disponibilità sia, da un lato, acquisita dall’accipiens e, dall’altro lato, perduta dal medesimo solvens (cioè che il solvens non possa utilmente inviare due o più messaggi relativi alla stessa criptovaluta associata alla chiave pubblica generata dalla chiave privata di cui il soggetto abbia un uso esclusivo e che, una volta effettuata la registrazione sulla blockchain di una transazione, posta in essere con il mero invio di un messaggio relativo alla criptovaluta effettivamente associata alla chiave pubblica in menzione, solo l’accipiens, attraverso l’impiego della chiave privata in grado di generare la chiave pubblica di destinazione, possa inviare altro messaggio relativo alla criptovaluta oggetto del messaggio registrato sulla blockchain) senza che, ovviamente, debba esservi alcun intermediario a supplire all’attività di chi, per eseguire il pagamento, si sia appunto limitato a compiere un singolo atto – consistente nella manifestazione di un consenso espresso mediante l’invio di un messaggio attraverso una rete informatica – idoneo ad esprimere solo una volontà.
Tali indispensabili requisiti sono assicurati, ovviamente, perché il contenuto del messaggio (il cui invio, ove si impieghi la tecnologia Bitcoin, è sufficiente, per come detto, a dar corso alla consegna) è, almeno rispetto ad alcuni profili dirimenti, predeterminato: il riferimento, in particolare, è al fatto che i messaggi inviati per il tramite della tecnologia Bitcoin contengono in automatico le informazioni relative a tutti i precedenti passaggi di titolarità della criptovaluta oggetto della singola transazione[vi] e non possono, conseguentemente, avere ad oggetto quantitativi di criptovaluta superiori a quelli che risultino effettivamente associati alla chiave pubblica generata dalla chiave privata di cui il solvens abbia l’uso esclusivo.
Resta, nondimeno, che l’attività posta in essere da chi trasferisca criptovaluta in questo consiste, nella mera manifestazione di un consenso espresso mediante l’invio di un messaggio attraverso una rete informatica.
Occorre, dunque, chiedersi quale sia l’oggetto di questo consenso.
Orbene, la risposta, se si ha riguardo al funzionamento della tecnologia Bitcoin[vii], è che il consenso, allorquando è inviato il messaggio atto a dar corso al trasferimento della criptovaluta, è espresso solo in relazione ad un numero ideale che corrisponde al quantitativo di criptovaluta, tra quello associato alla chiave pubblica generata dalla chiave privata di cui il solvens abbia l’uso esclusivo, concretamente oggetto di trasferimento (dovendosi ovviamente sottolineare che questo numero non ha alcun substrato reale e non si identifica nemmeno in un file informatico[viii]).
I bitcoin e le criptovalute in genere non sono quindi altro che quel numero, essendo irrilevante che esso, mediante la registrazione della transazione sulla blockchain, acquisisca la capacità di essere, per così dire, indelebile: questa capacità, a ben vedere, non è propria del numero, ma della registrazione in sé; essa, inoltre, non dipende dalla scelta del titolare, quanto dal consenso dei nodi e da regole matematiche (regole che operano in modo sostanzialmente corrispondente alle leggi di natura): a dire, in altri termini, che i bitcoin e le criptovalute in genere sempre numero rimangono, anche se tale numero ha, per le caratteristiche intrinseche della tecnologia Bitcoin, la capacità di essere registrato in modo indelebile.
Ciò posto, non può che condividersi la conclusione cui è già pervenuta la dottrina[ix], secondo cui i bitcoin e le criptovalute in genere non possono essere considerati quali beni giuridici immateriali[x]: non solo perché i beni di tal specie sono tipici e costituiscono, quindi, un numerus clausus, ma, a monte, perché essi si configurano se e nei limiti in cui l’ordinamento giuridico preveda norme che attribuiscano ad un soggetto (il titolare) determinate facoltà (quelle, cioè, in cui si esplica il diritto sul bene immateriale, che ne rappresentano il contenuto e senza le quali, pertanto, il diritto non potrebbe, in astratto, nemmeno esercitarsi e sarebbe, quindi, un diritto vuoto)[xi].
Si pensi, in tal senso, al caso esemplificativo dei diritti sulle opere delle ingegno, le quali sono tradizionalmente qualificate come esempio tipico e paradigmatico di bene giuridico immateriale.
Tali diritti esistono perché una norma di legge (nella specie l’art. 2577 c.c.) prevede che un soggetto (l’autore dell’opera) abbia la facoltà di far valere, anche giudizialmente, il fatto di essere, appunto, l’autore dell’opera e, conseguentemente, quella di poterla sfruttare economicamente (ma, si badi, e non caso, “nei limiti e per gli effetti fissati dalla legge”) e di poterne impedire qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione “che possa essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione”; correlativamente al titolare dell’opera dell’ingegno, proprio perché trattasi di bene giuridico immateriale, non possono spettare, per definizione, altre facoltà che quelle sancite da una specifica norma di legge (dovendosi ovviamente escludere che sul bene, in quanto immateriale, sia possibile esercitare ciò che, per i beni materiali, può anche solo consistere nell’apprensione della cosa e nel suo uso od impiego per soddisfare i propri bisogni).
Tutto ciò, nel caso dei bitcoin e, più in genere, delle criptovalute, è ovviamente del tutto assente, non solo perché non v’è alcuna norma dell’ordinamento giuridico che, tipizzando l’istituto, consenta di conferire alle stesse dignità di bene giuridico immateriale, ma, ancor prima, in quanto la stessa tecnologia Bitcoin si fonda sull’assunto per cui, perché essa sia in grado di assolvere alla propria funzione, basta il consenso degli utenti (sulla base di questo avvengono infatti la stessa attività di verifica delle transazioni e le conseguenti registrazioni sulla blockchain) e che essa abbia quindi, di per sé, la capacità di raccogliere tale consenso a prescindere dal riconoscimento di qualsivoglia specifica tutela giuridica a favore degli utenti (la tutela degli utenti è assicurata da regole matematiche e dal principio del consenso sulla cui base sono gestite le registrazioni sulla blockchain).
Chi ha l’uso esclusivo della chiave privata in grado di generare la chiave pubblica cui, in base alle registrazioni della blockchain, risulti associato un determinato quantitativo di criptovaluta non ha, dunque, facoltà di sorta da esercitare, non può servirsi di quel numero in alcun modo se non trasferendolo, in tutto o in parte, ad altri, potendo, tuttavia, confidare, in quest’ambito, solo nella speranza che altri voglia accettare quella criptovaluta in pagamento e giammai nel diritto a che ciò avvenga.
D’altra parte, la disponibilità di criptovaluta non si accompagna ad un diritto alla conversione (in moneta fiat o altro), né v’è alcun obbligo per i terzi di accettare criptovaluta in pagamento, così come, nel nostro ordinamento, è invece previsto per la moneta fiat ai sensi dell’art. 1277 c.c. (secondo cui “[i] debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale”) e dell’art. 693 c.p. (secondo cui “[c]hiunque rifiuta di ricevere, per il loro valore, monete aventi corso legale nello Stato, è punito con la sanzione amministrativa fino a lire sessantamila[xii]).
In altri termini, l’essenza della tecnologia sta nella sua capacità di raccogliere l’adesione spontanea e volontaria degli utenti, non già perché agli stessi possano normativamente riconoscersi specifici diritti e facoltà, ma per le sue caratteristiche intrinseche di funzionamento che la rendono sostanzialmente incorruttibile.
Una volta escluso, in ogni caso, che le criptovalute possano configurarsi come bene giuridico immateriale si comprendono le difficoltà di chi, per forza di cose, ha dovuto coerentemente negare che l’attività di chi trasferisca bitcoin possa qualificarsi come prestazione di dare, benché sia evidente che la manifestazione di consenso effettuata con l’invio del messaggio, nel nostro caso, è funzionalmente volta proprio a consentire l’assegnazione o l’attribuzione, in favore dell’accipiens, di un’utilità economica (ovverosia dell’utilità derivante dalla disponibilità della criptovaluta).
Da qui l’espediente per cui l’attività in questione dovrebbe comunque assumere una rilevanza giuridica, come prestazione, se non di dare, quantomeno di facere.
Si osservi, tuttavia, che se è indubbio che il trasferimento di criptovaluta, al pari dell’attività svolta da chi esegua una qualunque prestazione di facere, presuppone il compimento di un’attività volontaria (nella specie consistente nell’invio del messaggio attraverso la rete dei nodi previa digitazione (i) della chiave pubblica di destinazione, (ii) dell’importo in criptovaluta oggetto di trasferimento, (iii) della chiave privata in grado di generare la chiave pubblica cui tale criptovaluta risulti in quel momento associata e, eventualmente, (iv) dell’importo in criptovaluta da destinarsi a transaction fee), è al contempo evidente che tale attività può presentare i caratteri propri della prestazione di facere non più di quanto possa farlo quella del soggetto che apponga la propria firma ad un contratto; attività, quest’ultima, che è invece pacificamente qualificata non già come facere, bensì come mera manifestazione di consenso (espressa rispetto al contenuto del contratto).
Pare, quindi, evidente che il limite dello sforzo ricostruttivo di chi ha voluto ricondurre il trasferimento di criptovaluta ad un facere sia proprio nel fatto – benché la tesi colga senz’altro nel segno laddove esclude che la criptovaluta possa assimilarsi ad un bene giuridico – di non aver considerato la sostanza di ciò che avviene allorquando il solvens dà luogo a tale trasferimento: un’attività volontaria, certo, ma che, nondimeno, si estrinseca esclusivamente in una mera manifestazione di consenso espresso tramite il semplice invio di un messaggio, piuttosto che in un facere.
Manifestazione di consenso che, peraltro, se si ha riguardo alla natura del fenomeno, potrebbe essere più correttamente accostata a quella che si effettua, ad esempio, con la consegna della propria carta bancomat e la digitazione di un PIN sul POS (operazione che, nel nostro ordinamento, ha peraltro piena efficacia solutoria) pur discostandosi da quest’ultima per il fatto di non dar luogo all’attribuzione o all’assegnazione di alcun diritto (mentre il pagamento attraverso il circuito bancomat conferisce all’accipiens un diritto di credito nei confronti dell’istituto presso il quale sia aperto il conto su cui siano accreditate le somme rinvenienti dal solvens e ciò per un importo corrispondente a quello di dette somme, al netto delle commissioni).
In ragione di ciò, pare ben più corretto affermare che l’attività di chi trasferisca bitcoin o altra criptovaluta debba essere assimilata, se non ad una prestazione di dare (perché a ciò che è consegnato con l’invio del messaggio non può attribuirsi la qualifica di bene e perché la consegna di criptovaluta non conferisce all’accipiens alcun diritto), quantomeno ad una manifestazione di consenso, sebbene questa abbia ad oggetto un mero numero ideale.
Se, quindi, i bitcoin e le criptovalute in genere sono, in sé, un mero numero ideale che, come tale, è giuridicamente irrilevante, ciò non significa che il consenso che si manifesta allorquando sia effettuato un pagamento in bitcoin o altra criptovaluta non possa invece essere rilevante per l’ordinamento: esso rileva, o come manifestazione di consenso, sebbene espressa rispetto ad un mero numero ideale, ovvero, ed in ogni caso, indirettamente perché un effetto giuridico deve senz’altro riconoscersi al consenso espresso da chi, a fronte di tale pagamento, accetti in cambio di offrire altra prestazione.
Attività, quest’ultima, che può d’altra parte quantomeno ritenersi effettuata in esecuzione di un dovere sociale (connesso alla diffusa prassi degli utenti di accettare bitcoin o altre criptovalute come mezzo di scambio) anche nel senso indicato dall’art. 2034 c.c., che può quindi qualificarsi come obbligazione naturale e che, pertanto, una volta effettuata, non ammette ripetizione.
A dire, in buona sostanza, che lo scambio di beni o servizi per un prezzo in bitcoin o altra criptovaluta non è privo di causa, non è nullo, non dà luogo ad indebito oggettivo ed una volta effettuato non può essere contestato.
E ciò benché, nella realtà, lo scambio non sia avvenuto a fronte di un vero prezzo, né a fronte dell’attribuzione o dell’assegnazione di un bene giuridico o di un diritto di credito, né a fronte di altra prestazione, bensì a fronte di un mero numero ideale, registrato sulla blockchain in modo indelebile, che conferisce al titolare solo la speranza che altri voglia accettare di scambiare i propri beni o servizi per vedersi attribuito, in tutto o in parte, quel medesimo numero.
 
Giorgio Maria Mazzoli
 
Il presente articolo costituisce una sintesi anticipatoria del lavoro monografico sulle criptovalute in corso di redazione.
[i] Ayn Rand, L’uomo che apparteneva alla terra, seconda parte de La rivolta di Atlante, 2007, Milano, p. 90.
[ii] Dall’entrata in vigore della L. 59 del 1997 (c.d. Legge Bassanini), in attuazione della quale è poi stato emanato il D.P.R. 513 del 1997, ora abrogato (si vedano attualmente le norme del codice dell’amministrazione digitale di cui al D.Lgs. 82 del 2005), è stata sancita la piena validità giuridica dei documenti elettronici (l’art. 15 della legge sanciva che “gli atti, dati e documenti formati dalla Pubblica Amministrazione e dai privati con strumenti informatici o telematici, i contratti stipulati nelle medesime forme, nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge”, vale a dire che un documento siglato con firma digitale, nel rispetto dei criteri dettati dal citato regolamento, ha lo stesso valore di quello dotato di firma autografa). Da allora è stata fatta molta strada nella diffusione dell’utilizzo della firma digitale. Una spinta decisiva alla diffusione è derivata dall’introduzione dell’obbligo per le imprese di inviare gli atti societari al Registro delle Imprese esclusivamente per via telematica, la qual cosa ha implicato che le aziende disponessero della smart card per apporre la firma digitale. Di pari passo l’impiego di tale strumento si è diffuso anche all’interno della stessa pubblica amministrazione centrale, visto che i dirigenti e i funzionari con potere di firma sono anch’essi stati dotati di smart card. Nel 1997 era peraltro previsto per legge un solo tipo di firma digitale. Successivamente, a seguito del recepimento di una direttiva europea in materia (1999/93/CE, poi abrogata e sostituita dal Regolamento (UE) n. 910/2014), sono state contemplate varie tipologie di firma: quella elettronica, quella elettronica avanzata, quella elettronica qualificata e quella digitale. Quest’ultima (originariamente definita dall’articolo 1 del DPR 445/00 ed ora dall’art. 1 del D.Lgs. 82 del 2005) è definita qualeun particolare tipo di firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici”.
[iii] Si noti che il pagamento, in base all’art. 1188 c.c., anziché direttamente nelle mani del creditore, può esser fatto anche alla persona da questi indicata. È sulla base di tale principio che la stessa giurisprudenza ha da tempo potuto affermare che “[n]el caso di pagamento …effettuato a mezzo di bonifico, l’efficacia liberatoria per il solvens si ha … al momento dell’accredito della rimessa sul conto corrente dell’accipiens” (così Trib. Torino, 6 marzo 2002, in Giur.It., 2003, 732). È proprio sulla base di tale principio che la dottrina più recente, valorizzando l’efficacia liberatoria del pagamento effettuato tramite intermediari, ha potuto avanzare la tesi per cui, ai fini dell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie, a contare non sarebbe più la materiale consegna nelle mani dell’accipiens, quanto l’acquisizione, ad opera del medesimo, della disponibilità giudica del valore monetario (cfr. G. Marino, Il pagamento necessariamente “intermediato” dell’obbligazione pecuniaria nella legislazione di derivazione europea: verso il superamento dell’unicità del modello codicistico della traditio pecuniae”, in Giust. Civ., 19 marzo 2015). Resta, nondimeno, che l’acquisizione della disponibilità giuridica è, comunque, cosa diversa dalla consegna: se la consegna implica necessariamente l’acquisizione della disponibilità giuridica, quest’ultima può però realizzarsi anche senza una consegna, nel qual caso ciò che entra nel patrimonio dell’accipiens è pur sempre solo un diritto di credito nei confronti dell’istituto presso il quale siano accreditate le somme versate dal solvens (e non un diritto di proprietà sulle medesime somme).
[iv] Un riferimento espresso a tali obiettivi è contenuto nell’articolo Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System, pubblicato da Satoschi Nakamoto sulla mailing list frequentata da cyberpunks, The Cripthografy and Cripthografy Policy del sito metzdowd.com il 1° novembre 2008, primo articolo dedicato alla tecnologia Bitcoin la cui versione sperimentale fu poi rilasciata sul medesimo sito il successivo 8 gennaio 2009. Una traduzione in italiano, accompagnata da note esplicative e di commento, è disponibile all’indirizzo www.thebitcoinmanifesto.com/home/bitcoin-manifesto-una-cpu-un-voto/. L’autore nota come tra i costi da sostenere nei sistemi tradizionali di pagamento impiegati nel commercio on-line vi sia non solo quello connesso all’esecuzione della transazione, ma anche quello derivante dal fatto che “[c]ompletely non-reversible transactions are not really possible, since financial institutions cannot avoid mediating disputes. The cost of mediation increases transaction costs, limiting the minimum practical transaction size and cutting off the possibility for small casual transactions, and there is a broader cost in the loss of ability to make non-reversible payments for non-reversible services.”, cfr. Satoschi Nakamoto, op.cit., p. 1.
[v] È ben noto, ovviamente, che gli indirizzi utilizzati dal protocollo Bitcoin non sono esattamente costituiti dalle chiavi pubbliche ma sono da esse derivati. In aggiunta vale rammentare che gli indirizzi sono creati autonomamente dai singoli utenti attraverso il software Bitcoin. Cfr. P. Franco, Understanding Bitcoin, Crypthography, Engineering and Economics, Padstow, Conrwall, UK, 2005, p. 13-14 e 73 ss.
[vi] L’invio del messaggio, difatti, presuppone necessariamente che il solvens firmi digitalmente il messaggio stesso con l’impiego della propria chiave privata ed è noto che tale firma è apposta su un corpus di dati composto dall’hash generato dalla chiave pubblica dell’accipiens e, ciò che più rileva, anche dall’hash della precedente transazione. Attraverso il descritto meccanismo, pertanto, ciascuna transazione verrà dunque ad essere sostanzialmente connessa od agganciata a quella che la precede, di talché i diversi trasferimenti andranno a costituire una vera e propria catena ideale riferita al singolo valore monetario considerato. Il messaggio, quindi, contiene in sé, in via automatica, la registrazione di tutti i diversi passaggi di titolarità in modo da consentire l’individuazione di tutti i titolari della criptovaluta sino all’ultimo, in favore del quale potrà dunque riconoscersi quella disponibilità esclusiva senza la quale, in base a quanto innanzi rilevato, non potrebbe darsi alcun pagamento (secondo un meccanismo, quindi, sostanzialmente corrispondente a quello previsto per la circolazione dei titoli all’ordine laddove è proprio la serie continua di girate, a norma dell’art. 2008 c.c., che consente di individuare il soggetto legittimato all’esercizio del diritto incorporato nel titolo). Proprio ciò fa sì, quindi, che il solvens, con l’invio del messaggio, possa trasferire solo la criptovaluta di cui il medesimo abbia l’effettiva disponibilità e che tale disponibilità, per effetto del pagamento, sia acquisita dall’accipiens e perduta dal solvens.
[vii] Non è qui il caso di spiegare tale funzionamento. Ci si può limitare a rinviare, su tutti, a P. Franco, op.cit.
[viii] Tale aspetto è messo opportunamente in rilievo da I.W. Schiaroli, Dark Web & Bitcoin – La nuova era della rete, 2012, Roma, p. 20.
[ix] Cfr. A. Lodi, Le criptovalute, in Giust. Civ., 19 ottobre 2014.
[x] La questione relativa alla riconducibilità delle criptovalute nell’alveo della nozione di bene giuridico immateriale ricalca, evidentemente, la problematica emersa in relazione alla qualificazione del know-how e, più in genere, del segreto aziendale, per i quali pur si era avanzata in dottrina la tesi dell’assimilabilità ai beni giuridici immateriali, poi suffragata anche da alcune pronunce giurisprudenziali. Sulla questione si rinvia, ex plurimis, a G. Resta, Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, 2011, Torino, p. 279 e ss. con ampi riferimenti bibliografici. L’A. rammenta come la tesi del know-how come bene giuridico immateriale non abbia conosciuto larga diffusione “principalmente perché ha incontrato l’ostacolo dell’assenza, nel nostro ordinamento, di una norma specifica che disciplinasse il segreto [aziendale] come oggetto di un diritto assolutoRiconoscere al segreto la natura giuridico di bene immateriale tutelabile erga omnes significava, quindi, battere in breccia il principio del numero chiuso dei diritti esclusivi… La dottrina maggioritaria, pur negando all’invenzione segreta la natura di bene giuridico, non ha, però, escluso che essa possa essere oggetto di una tutela indiretta da parte dell’ordinamento”.
[xi] Il discorso a ben vedere può essere esteso, in generale, ad ogni bene giuridico accogliendo l’impostazione secondo cui può ritenersi tale “qualsiasi entità materiale o ideale giuridicamente tutelata” (così G. Cassano, I beni: tentativo di sintesi ed aspetti qualificatori, trascrizione dell’intervento ad un seminario romano tenutosi nella occasione della presentazione del volume Proprietà e diritti reali. Il sistema delle tutele, a cura di G. Cassano, 2007, Milano, consultabile al link: http://www.altalex.com/index.php?idnot=39331). Anche rispetto alle cose materiali, per le quali è ovviamente più semplice rinvenire nell’ordinamento una norma che tuteli l’interesse di un soggetto a farne un uso esclusivo, può d’altra parte affermarsi che la scienza giuridica considera la cosa come bene solo sotto il profilo della tutela accordata dalle norme. In assenza di una norma atta a predisporre questa tutela non può quindi configurarsi alcun bene giuridico: da qui, ad esempio, la conclusione secondo cui una res nullius non può ritenersi bene giuridico, se non allorquando sia intervenuta un’occupazione e quindi l’acquisto della proprietà della cosa da parte di un determinato soggetto, perché solo allora può trovare applicazione la norma volta a tutelare gli interessi del soggetto che, con l’occupazione, abbia fatto propria la cosa (di cui, nella specie, per le cose mobili, all’art. 923 c.c.).
[xii] La fattispecie prevedeva originariamente la sanzione dell’ammenda, cui è poi stata sostituita quella amministrativa per effetto della depenalizzazione operata dall’art. 33, lett. A), L. n. 689/1981.

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