Sono passati oltre 2 mesi dalla pubblicazione della ris. min. 72/E del 2 settembre 2016 e, ancora, molta confusione regna nel merito del primo documento ufficiale dedicato ai bitcoin dalla Agenzia delle Entrate. Nebbie che faticano a diradarsi data l’ambiguità di talune affermazioni in esso contenute.
Innanzitutto, dando adito a ciò che in maggior misura funziona all’interno del documento e rimanendo in ambito prettamente fiscale, risulta ragionevole l’assimilazione alla fattispecie tributaria delle valute estere; tesi sostenuta da chi scrive fin da inizio 2014 (IBL, Bitcoin: quale regime giuridico e fiscale?) e perorata in svariate pubblicazioni (in ultimo Coinlex.it, Dichiarazione dei redditi e bitcoin).
Tale interpretazione dell’AdE viene colta con piacere poiché l’assimilazione alle fattispecie delle valute estere, anche se non espressamente richiamata ma disciplinata nel nostro ordinamento tributario dagli art 9 del TUIR per le imprese e dagli artt. 67, comma 1, lett. c-ter) e 67 comma 1-ter) del TUIR per le persone fisiche, risulta essere tra le migliori definizioni possibili per una serena diffusione dello strumento delle criptovalute all’interno del nostro sistema.
L’estensore della risoluzione 72/E parrebbe giungere a tali conclusioni seguendo l’iter logico avviato dalle supreme toghe della Corte di Giustizia EU, con la ormai nota sentenza della causa C-264/14 “Skatteverket (amm. Finanziaria) VS David Hedqvist”, richiamando quindi l’assimilazione alla fattispecie di cui articolo 135, paragrafo 1, lettera e), direttiva CE 2006/112 delle “divise, banconote e monete con valore liberatorio” e, più genericamente, alle operazioni che “.. costituiscono operazioni finanziarie in quanto tali valute siano state accettate dalle parti di una transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento legali”.
L’effetto pratico di tale interpretazione conduce ad un quadro impositivo di facile applicazione dato che rievoca in tutto e per tutto la disciplina fiscale dei depositi in valute estere (dettagliatamente delineata negli articoli precedentemente citatiti); inoltre, se fosse possibile gestire un’appostazione contabile secondo regole certe (OIC e IAS) potenzialmente in grado di permettere il rispetto delle previsione di cui all’art. 2423 cc di rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio, si andrebbe nella direzione della totale assimilazione delle criptovulate al mondo della moneta.
Purtroppo, va ravvisato che, ragionando in tal senso e facendolo l’amministrazione finanziaria, si assiste ad una prevaricazione delle funzioni proprie dell’Istituto e ad uno sconfinamento in territorio non di propria competenza, assai preoccupante. Non spetta all’amministrazione finanziaria dare definizione giuridica di fenomeni reali, inclusi i bitcoin.
Ma anche restando in materia amministrata dall’Agenzia delle Entrate, non tutte le conseguenze relative alle previsioni contenute nella risoluzione, per quanto concettualmente condivisibili, vanno nella direzione più favorevole ad uno sviluppo armonioso del mercato; infatti, leggiamo che, trattandosi di fattispecie assimilabile alle valute estere, la differenza tra il costo di acquisto e il valore dei BTC detenuti a fine esercizio risulta essere materia imponibile per gli operatori commerciali, con la conseguenza che saranno assoggetti a tassazione redditi non ancora conseguiti e dovuti ad una elevatissima volatilità propria dello strumento.
Altro effetto di non semplice applicazione pratica è quello relativo al valore di riferimento; il richiamo voluto dalla ris. 72/e del cambio in vigore in una determinata data, in un mercato non regolamentato e privo di listini ufficiali, presta il fianco a diverse interpretazioni dell’effettivo valore normale.
Ancora in tema di imposte dirette, riscontriamo la seconda grande criticità della risoluzione.
L’affermata non imponibilità delle plusvalenze realizzate dalle persone fisiche, argomento che probabilmente maggiormente ha toccato le fantasie dei bitcoiner ed entusiasmato la community, è una forma di pericolosa captatio benevolentiae (ipotesi migliore) o di sconcertante leggerezza dell’estensore della risoluzione (ipotesi peggiore).
Innanzitutto, va ricordato che il valore giuridico della risoluzione in esame e, in generale, il valore giuridico delle risoluzioni emanate dall’AdE in risposta ad interpelli posti ai sensi dell’art 11 comma a) L. 212/2000, nei confronti della totalità dei contribuenti, risulta essere pari a zero. Le stesse hanno potere obbligatorio unicamente per l’amministrazione finanziaria e soltanto nei confronti del soggetto che presenta istanza di interpello. Giurisprudenza consolidata conferma come circolari e risoluzioni abbiano carattere interpretativo e indicativo senza obbligare alcuna parte ad un determinato comportamento (Cassazione Civile, SS.UU., sentenza 02/11/2007 n° 23031, Cassazione 237/2009 e 5137/2014). Tale aspetto porta tutto ciò che nella risoluzione viene detto di diverso da quanto domandato dall’istante ad avere valenza pressoché nulla, non vincolante per l’amministrazione finanziaria e tantomeno per i terzi.
Motivo per cui, la paventata non imponibilità dei capital gain realizzati dalle persone fisiche, può essere considerata corretta solo se nei limiti prescritti per la stessa fattispecie reddituale prevista per le valute estere dall’art. 67 del TUIR comma 1-ter TUIR, ovvero quei limiti dimensionali e temporali che non inducano l’amministrazione finanziaria a mettere in dubbio l’intento non speculativo del contribuente, dimostrabile nel non superare la giacenza complessiva di tutti i depositi e conti correnti in valuta intrattenuti sia superiore a 51.645,69 euro per almeno 7 giorni lavorativi continui.
Volerci leggere una deroga a qualsiasi principio di formazione del reddito imponibile previsto dal TUIR equivale a voler dotare di efficacia normativa una risoluzione ministeriale che, come ricordato sopra e come da giurisprudenza consolidata, ha valore unicamente di indirizzo. Le fonti del diritto sono ben altre e un documento di prassi non ha il potere di creare dal nulla una nuova categoria reddituale; ciò può avvenire unicamente per intervento del legislatore.
L’assimilazione giuridica alle valute estere, poi, risulta essere un processo assai rischioso per le numerose ricadute sistemiche che comporterebbe (AML, TUB, etc..); non per nulla la stessa Banca Centrale Europea condanna fermamente l’utilizzo del termine moneta per le criptovalute e lo fa in termini di definizione giuridica di un proprio ambito di intervento.
Proprio in materia di antiriciclaggio l’Agenzia delle Entrate sconfina nuovamente e largamente in un terreno amministrato (a ragione) dalla Banca d’Italia; l’affermazione di voler riconoscere gli exchanger alla stregua di cambiavalute e ritenerli tenuti agli obblighi di adeguata verifica della clientela, di registrazione nonché di segnalazione ai sensi del decreto legislativo n. 231 del 2007, risulta essere un’affermazione tanto pericolosa per la sostanza quanto per la forma. Se prima prova a sostituirsi al Legislatore, ci ritenta poi con l’authority antiriciclaggio.
Per concludere con una nota positiva, e non può che essere colto con favore e quale segno distensivo per gli operatori del mercato, rinveniamo le previsioni di essere esclusi da qualsiasi adempimento posto in capo ai sostituti di imposta e il pieno recepimento delle pronunce della corte di giustizia EU in tema di esenzione IVA tra le ipotesi dell’art. 10 primo comma n. 3) del DPR 633/72.
Sarà compito del Legislatore, come è giusto che sia, partire da ciò che di buono è stato interpretato con la risoluzione 72/e e coniugarlo con un processo di produzione normativa, ormai avviato a livello europeo, al fine di scongiurare il pericolo che solo il nostro paese possa essere messo al bando dall’ormai inarrestabile evoluzione tecnologica che le criptovalute rappresentano.
Paolo Luigi Burlone
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